Liberare l'Italia da lacci e lacciuoli

di Fabrizio GalimbertiIl Sole 24 Ore del 20.04.2012

Pochi, maledetti e subito. Non sono tanto i soldi che le imprese piangono da quel pagatore renitente che è la Pubblica amministrazione (anche se aiuterebbero non poco); sono i provvedimenti per far ripartire la crescita.

Il Pil non aumenta per decreto legge, disse Giulio Tremonti. Neanche Stalin riusciva a fare crescita con gli ukaze, reitera l’ex ministro. Tutto giusto, tutto vero. Ma da qui a credere e far credere che lo Stato sia impotente di fronte a un’economia che affonda nella recessione ce ne corre. Forse il tormentone dell’articolo 18 ci ha fatto dimenticare quelle linee di faglia che delimitano la gabbia dell’economia italiana: quegli aspetti di qualità e di quantità – qualità del tessuto produttivo e quantità dei vincoli – che stringono l’economia in una soffocante minorità.

La crescita si fa con il capitale umano: educazione, ricerca, innovazione… Quando Fabrizio Barca afferma, sconsolatamente, che la fuga dei cervelli – i migliori giovani se ne vanno – è comprensibile, nella situazione attuale della nostra università e dei nostri fondi per i ricercatori, afferma una triste verità. Ma le regole che presiedono a questo stato di cose possono essere cambiate, spesso a costo zero.

Sono passati decenni da quando Guido Carli lamentava i «lacci e lacciuoli» che impastoiano la nostra economia. Che cosa è cambiato da allora? Chiedete agli investitori stranieri che cosa li tiene alla larga dalla penisola, e vi risponderanno che il problema principale sta nell’incertezza e nelle lungaggini delle procedure autorizzative. Dai tratti autostradali fermi da dieci anni alle allucinanti vicende dei rigassificatori di Brindisi (l’inglese British Gas) e di Trieste (la spagnola Gas Natural Fenosa) e alle autorizzazioni negate per gli investimenti Ikea a Pisa e a Torino, a tanti altri piccoli e grandi inciampi che le nostre imprese conoscono bene, è tutta una frustrante litania di ritardi e di veti. Un dedalo disperante di competenze incrociate, “conferenze di servizi” che non funzionano, “sportelli unici” che si fanno plurimi, federalismi malintesi che moltiplicano gli ostacoli… Nodi intricati che attendono ancora chi li sappia sciogliere.

Nell’Italia “madre del diritto” la pseudocultura giuridica pesca nelle vasche brulicanti di norme e regolamenti e fa delle more, dei rimandi, dei ricorsi, degli appelli un percorso viscoso che spegne la volontà di fare e di innovare. I partiti fanno programmi elettorali, i governi dispiegano lenzuolate di buone intenzioni. Ma quello di cui c’è bisogno è altro. È una ricerca piana e sapiente, negli snodi istituzionali e normativi, di quei grumi che umiliano la creazione di nuovi insediamenti, insieme alla decisione di cambiarli – un’altra riforma a costo zero – anche se questa decisione dovesse valersi di quella spada con cui Alessandro Magno tagliò il nodo nel palazzo di Gordio.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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