Tutti gli interessi in campo, e in conflitto, sulle rinnovabili

di Carlo StagnaroIl Foglio del 04.04.2012

Torna la guerra dei pannelli.Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, è al lavoro sul “quinto conto energia”, cioè l’ennesima riforma degli incentivi al fotovoltaico. Sullo sfondo c’è l’attesa dei decreti per le altre fonti, come l’eolico e le biomasse, attesi da settembre 2011. Passera interpreta una posizione vicina a quella di Confindustria, ma la sua non sarà una passeggiata. Infatti non deve scontrarsi solo con i produttori di energia verde, ma anche con lo scetticismo del titolare dell’Ambiente, Corrado Clini.

Che cosa sta succedendo? Per dare una risposta bisogna guardare al posizionamento di altri due attori. Uno è l’Autorità per l’energia, da tempo attiva nel denunciare il peso crescente degli incentivi. Quest’anno i consumatori dovranno sborsare oltre 10 miliardi di euro per i sussidi, più i costi “di sistema” dovuti all’intermittenza di alcune fonti. Intermittenza che, secondo l’authority presieduta da Guido Bortoni, spiega circa il 40 per cento degli ultimi aumenti.

Ci sono, poi, i colossi energetici, sia quelli rimasti all’interno di una Assoelettrica sempre più egemonizzata dall’Enel, sia quelli che hanno dato vita a Energia concorrente (Sorgenia, GdfSuez, Egl, RePower e Tirreno Power).

Questi sono sempre più infastiditi dalla crescita delle rinnovabili, la cui produzione deve essere interamente ritirata dalla rete, non solo perché si restringe lo spazio di mercato contendibile, ma anche perché, per le modalità di determinazione del prezzo in Borsa, il fotovoltaico, come si dice in gergo, “fa la barba al picco”, cioè “taglia” i prezzi proprio nei momenti di massima domanda.

Così, i gestori delle centrali a gas, specie i cicli combinati di recente costruzione, si trovano in sofferenza sia sui volumi, sia sui margini. Tutti sono scontenti: i produttori rinnovabili perdono gli incentivi e scontano un’incertezza normativa; i produttori convenzionali hanno un parco di generazione drammaticamente sottoutilizzato (anche per la crisi e il calo della domanda); e i consumatori, specie quelli industriali di piccole e medie dimensioni, hanno bollette record.

La stessa industria rinnovabile si trova oggi sovraesposta e frammentata, priva di una vera disciplina interna perché, fino a poco tempo fa, si potevano fare soldi, e tanti, senza prestare attenzione al merito progettuale degli impianti. I sussidi promettevano il rendimento di un bot argentino con la sicurezza di un bund tedesco. Non poteva durare e non è durato, come ha ammonito il responsabile energia del Pd, Federico Testa, in un intervento sull’Unità indirettamente polemico con le frange “verdi” del suo partito.

Vie d’uscita facili non ne esistono: la strada stretta del fare dell’Italia un paese esportatore passa per le forche caudine di una rete tutta da potenziare (da rendere più robusta, più ancora che “smart” come invece va di moda dire) e soprattutto di un mercato gas da rendere concorrenziale per allineare i nostri prezzi a quelli europei e rendere così la nostra elettricità competitiva.
Tracciare le responsabilità è ugualmente complesso.

Non ci troveremmo in tale guazzabuglio se, prima, l’asticella degli incentivi non fosse stata fissata troppo in alto, e se, poi, la cornucopia degli incentivi non fosse stata mantenuta aperta grazie a una leggina inserita nel decreto “salva Alcoa”. “Le regole – ha scritto Gionata Picchio sulla Staffetta quotidiana – le ha fatte lo stato e se tagliare è necessario e non più rinviabile, farlo in modo drasticamente retroattivo, più che segnare una discontinuità con le policy degli ultimi, rischia di porsi in continuità con esse”.

La moglie è molto più che ubriaca, e la botte ormai pressoché vuota. Non si può pensare di uscirne senza lasciare qualcuno a bocca asciutta e senza un mal di testa per tutti.

Fonte: Il Foglio

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