Di Francesco Manacorda – La Stampa
Rocca (Assolombarda): bisogna diventare “impiegabili”, adatti a più lavori nella vita
«Il lavoro per decreto, con una formula magica del governo che qualcuno pure si aspetta, non arriverà mai. Il lavoro, specie in una situazione in cui gli Stati hanno debiti enormi, nasce solo dalle imprese private e dagli investimenti. E per averne di nuovo serve agire dal lato dell’offerta, rendendo più efficiente il mercato dell’occupazione, e da quello della domanda, riscoprendo una cultura d’impresa e non ostile all’impresa». Chiedi a Gianfelice Rocca, numero uno della multinazionale Techint e neopresidente dell’ Assolombarda, come sbloccare il mercato del lavoro in Italia e creare nuovi impieghi, e una delle prime cose che ti senti dire è che «bisogna ragionare con la testa nel mondo e non pensare che la competitività sia solo un fatto locale. In Germania, dove abbiamo un migliaio di dipendenti, lo facciamo assieme a un sindacato molto presente in azienda e abbiamo buoni risultati».
Che cosa ci può insegnare la Germania, dottor Rocca?
«Molto sul tema del mercato del lavoro, ovvero sull’organizzazione dell’offerta. Durante i primi Anni 2000, gli anni della Grosse Koalition, tutte le riforme fatte da Hartz hanno cambiato radicalmente un mercato che era assai rigido. Oggi in Germania si lavora da casa, si fa l’infermiere quattro ore il giorno, l’apprendistato funziona. Sono mini e mid-jobs, da 400 a 800 euro al mese, decontribuiti e defiscalizzati, fanno sì che il tasso di occupazione tedesco sia del 70% rispetto al nostro 56%».
A patto di una flessibilità assai avanzata, però.
«Non bisogna avere paura di questa flessibilità in entrata, mentre in Germania la flessibilità in uscita non è certo la libertà di licenziare. Sta di fatto che oggi in Europa abbiamo un sistema completamente dualistico: la Germania ha un tasso di disoccupazione del 5,4%, l’Italia è al 12%, Spagna e Grecia al 27%. Anche per questo bisogna guardarsi attorno, per capire se non c’è qualcosa di strutturalmente sbagliato da noi. E ad esempio in Italia abbiamo il peggior mercato del lavoro europeo dal punto di vista della complessità: il nostro codice del lavoro è di 2700 pagine contro le 800 di quello tedesco e le 130 di quello svizzero. Viviamo in una babele giuslavoristica».
La paura di cambiare, di seguire il modello tedesco, però, dipende anche dalla paura di perdere garanzie sulla stabilità.
«Bisogna uscire dall’idea del precariato o del lavoro inteso come difesa di un posto sempre nello stesso punto e nello stesso mestiere, che è del tutto incompatibile con il mondo verso cui andiamo. A questi concetti si deve sostituire quello di “impiegabilità”, cioè fare in modo che le persone siano dotate di un monte di conoscenze che consente di essere interessanti per il mercato del lavoro in vari momenti. Non si tratta solo di istruzione, ma di formazione continua. In Italia purtroppo questo sforzo è del tutto assente».
E invece che cosa andrebbe fatto, secondo lei?
«Un esempio? Vediamo che l’artigianato sta rinascendo in tutto il mondo, Usa compresi, come processo di diversificazione di prodotti sofisticati. Ci sono migliaia di posti, ma ci sono pochi percorsi scolastici e formativi che portano in quella direzione. Un altro esempio La stessa Germania sta entrando in carenza di tecnici, e allora i nostri giovani devono guardare lì. Certo, ci vuole una dimensione europea, non si può pensare di trovare il posto sotto casa. Eppure, quando il Politecnico di Milano ha lanciato l’idea di fare tutte le lauree magistrali solo in inglese è stato blocca to da un ricorso al Tar… E questo per fermarci al lato dell’offerta di lavoro, mentre anche la domanda soffre»
Certo, con l’economia in crisi…
«Qui il tema di fondo è la cultura d’impresa: oggi viviamo in un Paese profondamente anti-impresa con un fisco e una burocrazia asfissianti, mentre i tempi e l’incertezza della giustizia ci vedono al 160° posto su 180 nelle classifiche di Doing Business».
E come si può creare nuovo lavoro?
«Farlo significa anche aiutare le start up e la crescita dell’export, dove abbiamo perso quote di mercato importanti nelle tecnologie ma dove un recupero è possibile. La vitalità scientifica dell’Italia è elevata, misurata in citazioni è pari all’80% di quella tedesca; ma poi facciamo il 20% .
E questo chiama in causa il distacco tra mondo accademico e mondo dell’impresa…
«Chi è nell’Università dovrebbe pensare alla propria ricerca come qualcosa che può cambiare il mondo attorno a sé, come avviene ad esempio al Mit e come non succede qui. Ma in generale l’Italia può essere un leader, nell’innovazione combinatoria – la combinazione di tecnologie esistenti – o nell’innovazione evolutiva che è diversa dall’evoluzione rivoluzionaria che fanno i colossi come Microsoft, con 5000 brevetti l’anno».
Ma quali spazi si possono liberare se i grandi gruppi italiani sono sempre di meno?
«Nelle tecnologie dell’informazione o nelle biotecnologie servono grossi investimenti iniziali per grandi progetti, e questa obiettivamente è una barriera per un Paese che tra l’altro ha perso già nel passato i suoi principali player. Ma c’è una nicchia – Israele insegna – dove c’è spazio per un’infinità di sviluppatori, di creatori di applicazioni. Questo avviene specie nelle grandi città: Milano e Torino, anche come presenza di università e imprese, se liberano energie, possono giocare una partita europea».
A patto di cambiare il quadro normativo?
«Sì, serve anche questo. Una profondissima revisione del codice del lavoro e pratiche attive per l’occupazione; poi percorsi di istruzione che pensino al lavoro fin dall’inizio. E dentro le aziende abbiamo difficoltà a premiare il merito: gli aumenti debbono essere legati solo alla produttività e negoziati solo a livello aziendale».