Controlli fiscali e società aperta

di Piero OstellinoCorriere della Sera del 03.04.2012

Fra i compiti dello Stato di democrazia liberale c’è quello di far pagare le tasse per garantire la vita, le libertà soggettive, la proprietà e la sicurezza dei propri cittadini. È, perciò, nell’interesse dei cittadini pagarle. Ciò nonostante, ci distinguiamo per essere uno dei Paesi al mondo con la più alta evasione fiscale. Forse dovremmo incominciare a interrogarci perché sia tanto difficile, da noi, far pagare le tasse, chiedendoci: 1) se non siano troppo oppressive – come suggerisce la curva di Laffer: più alte sono, maggiore è l’evasione; più basse sono, maggiore è la propensione a pagarle – rispetto alla capacità contributiva del Paese; 2) se il loro livello troppo elevato non sia in contraddizione con un’economia capitalistica quale è (dovrebbe essere) la nostra, fondata sull’accumulazione della ricchezza da parte della società civile, e non piuttosto non sia in sintonia con uno Stato di «socialismo reale», dove i funzionari e gli impiegati pubblici di ogni categoria e di ogni livello sono cinque volte quelli dei Paesi di democrazia liberale delle nostre stesse dimensioni. In altre parole, forse, incominceremo a pagare meno tasse quando l’impiego pubblico sarà «un lavoro»; non, come adesso, «il posto».

Quando supera certi livelli, l’evasione fiscale è un fenomeno «sociologico»: c’è qualcosa di strutturale che non va nel sistema. Per il nostro Fisco, e gran parte dell’opinione pubblica, l’evasione è, invece, «un fatto morale». Gli addetti alla riscossione tendono a comportarsi come fossero «inviati da Dio sulla terra per redimere i cittadini disonesti». È un approccio distorto per due ragioni. Innanzi tutto, perché confonde la produzione di ricchezza con l’evasione: siamo il solo Paese capitalista al mondo dove i capitalisti (gli imprenditori) si suicidano perché non ce la fanno a pagare le tasse e a fare il proprio mestiere. In secondo luogo, perché, conferendo al Fisco una natura teologica, connota lo Stato come premoderno, nel quale il cittadino era (è) suddito del sovrano assoluto legittimato dalla religione.

Sotto il profilo della teoria politica, pagare le tasse non può essere un «dovere» per la semplice ragione che lo Stato moderno non impone, ma si limita a offrire al cittadino – che, eventualmente, come sostengono i libertari, se li potrebbe procurare in gran parte anche sul mercato – solo di godere dei suoi servizi. È sbagliato sostenere che si pagano le tasse per pagare il welfare, perché, in tal modo, si finisce con autorizzare chi non ne usufruisca – magari facendosi curare in Svizzera, mandando i figli a scuola in Inghilterra, facendosi proteggere da una scorta privata, ricorrendo ad arbitrati nel caso di controversie private – a non pagarle. È invece «interesse» del cittadino pagare le tasse perché esse sono il modo attraverso il quale si concreta il Contratto sociale attraverso il quale gli uomini si assicurano la convivenza civile nella sicurezza.

Veniamo, così, alla questione fiscale sotto il profilo delle libertà individuali. Il Garante della privacy ha giustamente denunciato che «una spinta al controllo e all’acquisizione di informazioni sui comportamenti dei cittadini (…) può condurre a fenomeni di controllo sociale di dimensioni spaventose».

Un conto sono, dunque, le visite della Guardia di finanza negli esercizi commerciali per verificare la regolarità fiscale della loro attività (emissione degli scontrini; tenuta di registri della contabilità eccetera), un altro fermare le automobili di una certa cilindrata e chiedere agli automobilisti quale sia la loro situazione fiscale e come le abbiano pagate. Nel primo caso, siamo nell’ordinario e corretto esercizio del diritto di accertamento fiscale nei confronti di attività produttive di ricchezza tassabile; nel secondo, si cade in forme di controllo sociale sugli stili di vita dei cittadini che tracimano nella violazione non solo della loro privatezza ma anche – come rileva giustamente il Garante – delle loro libertà e dei loro diritti individuali.

La traduzione dell’evasione in un «fatto morale» produce conseguenze distorsive anche a livello di percezione delle proprie libertà e dei propri diritti da parte degli stessi cittadini, molti dei quali reagiscono alle notizie sulle incursioni della Finanza nella vita dei loro simili sostenendo che «chi non ha nulla da nascondere, non ha nulla da temere». Una «società aperta», cioè di democrazia liberale, si distingue da una «chiusa», cioè autoritaria o totalitaria, perché non tratta i suoi cittadini come fossero tutti delinquenti, ma tutela la privatezza proprio di chi non ha nulla da nascondere.

Sarebbe utile che ci fosse una chiara presa di posizione sui limiti e i modi di esecuzione delle indagini fiscali. Ciò affinché la credibilità dell’Italia, all’estero e agli occhi dei suoi stessi cittadini, non dipendesse (solo) dalla severità fiscale con la quale ha fatto fronte alla crisi finanziaria, ma (anche e soprattutto) dal fatto di essere, e di voler restare, uno Stato di diritto e una democrazia liberale, in qualsiasi circostanza.

Fonte: Corriere della Sera

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