Dopo i primi passi c'è molto da fare nella valutazione delle università

Di Roger Abravanel da Il Corriere della Sera

Ci vorrà un po’ di tempo per interpretare la valutazione delle università presentata in questi giorni dall’Anvur. È innegabile che il lavoro sia stato serio e rigoroso: le pubblicazioni dei ricercatori sono state analizzate da un esercito di 15.000 esperti e ogni università viene giudicata in base ai risultati dei suoi ricercatori più altri indicatori obbiettivi come i finanziamenti ottenuti in aggiunta a quelli pubblici.
Ma purtroppo il rigore del metodo non è una garanzia sufficiente, perché gli algoritmi e i criteri utilizzati alla fine possono dimostrare ciò che si vuole: molte università italiane sono piene di parenti dei baroni selezionati da «commissioni indipendenti» con «metodi obiettivi». Ciò che si riesce a comprendere nelle complesse tabelle dell’Anvur è che un embrione di valutazione obiettiva sta nascendo anche da noi. Le grandi università del Centro-Nord vengono fuori meglio di quelle del Sud. In ingegneria i Politecnici del Nord svettano rispetto agli altri.

Negli enti di ricerca l’Iit (Istituto di informatica e telematica), creato pochi anni fa all’insegna della meritocrazia più spinta, presenta ottime valutazioni. Il giudizio è invece da sospendere sulla valutazione dei piccoli atenei ed enti di ricerca che qualche volta presentano risultati sorprendentemente positivi, che non si sa se attribuire alla poca significatività del numero di pubblicazioni valutate o al fatto che un «cervello» di un’università americana si è trasferito in un piccolo ateneo per ragioni personali. Comunque sia l’Anvur ha messo a disposizione del ministero dell’Istruzione, università e ricerca (Miur) una mole di dati in base al quale sarà finalmente possibile distribuire i fondi pubblici in modo meritocratico e il ministro si è dichiarato pronto a raccogliere la sfida.
Ma manca ancora un tassello essenziale: la valutazione della didattica. Eppure il metodo in questo caso sarebbe molto più semplice perché ci si potrebbe in gran parte basare sul tasso di occupabilità dei laureati, oggi molto diverso da università a università. Le imprese italiane si lamentano che troppe università non sono più un buono strumento di selezione perché i 100 e lode si danno facilmente e i laureati si inseriscono male nelle organizzazioni perché mancano di capacità di problem solving pratico, di comunicare e di lavorare in gruppo.
Bene quindi l’Anvur, ma il bello deve ancora venire.

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