I novant'anni di Romiti: da Cuccia a Renzi, il racconto della mia Italia

Di Aldo Cazzullo – Da Il Corriere della Sera

«Il primo ricordo pubblico? L’arrivo degli americani Allora provai la fame, quella vera: né pasta, né pane»

Cetona (Siena) – Il terrazzo si apre sugli ulivi, i cipressi e le mura medievali di Cetona. Qui Cesare Romiti trova pace dopo una vita da battaglia. Domani compie 90 anni.

Qual è il suo primo ricordo pubblico?
«L’ingresso degli americani a Roma. Da giorni tuonava il cannone da Sud. Ero a messa con mia mamma. Si videro le prime camionette. Poi l’afflusso crebbe come un’onda».
Ma lei aveva già vent’anni. Del fascismo cosa ricorda?
«Mio padre era contro. Gli tolsero la tessera, lo mandarono via dalle Poste. Io sono stato balilla e avanguardista. Quando sei giovane e ti annunciano che siamo entrati ad Addis Abeba, non capisci che tutto finirà nel disastro».

Ha fatto la guerra?
«Feci il corso allievi ufficiali a Viterbo. No, non scelsi tra partigiani e Salò. Ero disilluso. Non mi piacque il modo in cui il Duce fu ucciso: capii che il Paese si imbarbariva».

Come ricorda l’Italia della ricostruzione?
«Affamata. Guardi che io la fame l’ho provata. Fame vera: niente pasta, niente pane, niente farina. Mio padre morì nel ’41, mia madre riuscì a far studiare me, mio fratello e mia sorella, ma dovetti cominciare a lavorare molto presto. Per fortuna il lavoro si trovava. In poco tempo ne cambiai quattro o cinque».

Quali lavori?
«Le prime cose me le affidò un geometra. Poi divenni amministratore del principe Boncompagni Ludovisi. La Roma liberata era stupenda, piena di umanità: la Roma della sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, che era mia amica. Nel ’46 scoppiò la febbre delle prime elezioni. Alla compagna del principe, la duchessa Salviati, non arrivava la tessera elettorale. Mi impegnai: se non gliel’avessi procurata, avrei votato come mi diceva lei».

Come finì?
«La duchessa ebbe la sua tessera. Io votai Repubblica, dopo lunghi ripensamenti. Come partito, la Dc».

Qual è il politico che ha stimato di più?
«Ugo La Malfa. Me lo presentò Cuccia, che l’aveva in grande considerazione».

Ma tra i presidenti del Consiglio?
«Uno era Spadolini. Mi piacevano il suo patriottismo, la sua dirittura morale e la sua ingenuità».

Quale giudizio storico darebbe oggi di Cuccia? Non fu troppo accentratore?
«Cuccia era un uomo dall’intelligenza fuori dall’ordinario. Uno capace di imporre il disegno di Mediobanca a Raffaele Mattioli, di cui era un dipendente. Grazie a Cuccia si salvarono imprese come l’Ansaldo, la Montedison, la stessa Fiat».

La Montedison alla fine però fu smembrata. Che ricordo ha di Gardini?
«Ottimo. Era uno dei miei più cari amici. Nei giorni drammatici di Tangentopoli fu tradito dalla famiglia, che non gli fece avere i documenti di cui aveva bisogno. E un romagnolo vero come Gardini non avrebbe mai passato una notte in carcere».

Il suo giudizio sull’Avvocato Agnelli?
«L’Avvocato era molto diverso da come è stato raccontato. Era considerato un principe; in realtà aveva avuto una vita molto dura. Quasi non conobbe suo padre. Perse da giovane pure la madre, che adorava. Fece anche la dolce vita. Ma poi ebbe il coraggio di andare da Valletta, l’uomo che aveva reso grande la Fiat, a dirgli: ora tocca a me. Diceva che avrebbe fatto fallire l’edicola all’angolo di corso Marconi in due giorni, ma aveva una straordinaria visione, antevedeva i grandi fatti».

Valletta l’ha conosciuto?
«Sì. Mi aspettavo un carismatico, uno come Agostino Rocca. Valletta invece appariva un professorino piccolo e magro. In realtà era d’acciaio. Una sera Rol, il sensitivo torinese, mi fece scegliere un foglio bianco tra tanti, su cui apparve un testo pieno di informazioni riservate e di consigli sulla Fiat. Conoscevo la grafia di Valletta. Era senza dubbio la sua».

Un trucco o un mistero?
«Me lo chiedo ancora adesso».

Fu Cuccia a mandarla in Fiat?
«Questa è un’altra cosa che si sente dire ed è totalmente falsa. Da tempo Agnelli mi chiedeva: “Perché non viene da noi?”. Io esitavo perché mi dicevano che la Fiat era una caserma, dove gli impiegati portavano le mezze maniche e le donne il grembiule nero, e in effetti era così. Agnelli chiese di me a Cuccia, e lui rispose: troppo tardi, Romiti è andato all’Alitalia. Arrivai poi a Torino nel 1972».

E cominciò a scontrarsi con Umberto Agnelli.
«All’inizio avevamo buoni rapporti. Ma lui aveva in azienda amici che se ne approfittavano. Io li misi fuori, e lui non me lo perdonò. Quando Suni Agnelli divenne ministro degli Esteri, ci vedemmo e mi chiese di fare pace con Umberto. Risposi che non potevo tenere in Fiat gente che lo tradiva. Suni non replicò».

Seguì lo scontro con Carlo De Benedetti.
«De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici. Diceva in giro di essere il primo azionista individuale della Fiat: cosa vera, perché gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi disse che bisognava cacciare i dirigenti e lasciare a casa 50 mila persone, l’Avvocato rispose: “Mi spiace, non si può fare”. “Allora me ne vado”. “Va bene, se ne vada” fu la risposta».

Non crederà che De Benedetti pensasse davvero di scalare la Fiat?
«Carlo mi ha sempre detto di no. Certo non era facile. Non escludo però che ci pensasse».

Lei ha polemizzato anche con Marchionne.
«Marchionne è in gamba. Però ha avuto in mente fin dall’inizio di portare la Fiat in America. È stato molto abile a farlo. La sede potrà anche restare simbolicamente a Torino, gli stabilimenti italiani rimarranno, ma ormai la gestione della Fiat è americana».

La famiglia però c’è ancora.
«È vero, John Elkann poteva fare il rentier , invece si occupa dell’azienda. L’Avvocato ha ricreato con lui il rapporto che aveva con il nonno. Umberto puntava sul figlio Andrea, che porta il cognome Agnelli, ma l’Avvocato scelse John. Nell’accomandita in cui si decise di farlo entrare nel consiglio d’amministrazione, Umberto disse al fratello: “Sia chiaro che è una tua decisione”. Gabetti e io precisammo che eravamo d’accordo anche noi. Umberto ripeté: “No, è una decisione dell’Avvocato”».

Berlusconi l’ha delusa?
«Sì. Come imprenditore è stato bravissimo. Ma non doveva fare politica».

Non la fece anche per salvare le aziende?
«No, aveva il gusto per la politica, e per il potere. Commise subito un grave errore, cacciando Montanelli. Indro non gli obbediva; ma non ci si priva di un uomo come lui. Negli ultimi anni siamo stati molto vicini. Un grande italiano».

Craxi com’era?
«A volte lo vedevo da Caterina Caselli. Sapeva essere simpatico. Però lui e quell’altro, quello bello…».

Martelli?
«Lui e Craxi erano molto arroganti. Craxi si occupava delle finanze del partito, lo considerava roba sua».

Anche Monti l’ha delusa?
«Sì, e gliel’ho detto, quando ci siamo trovati a Ballarò : “Perché ti sei candidato?”. Mi ha risposto mostrando i politici presenti: “Perché altrimenti ti saresti ritrovato da solo con loro”».

Renzi come lo trova?
«Mi ha invitato a pranzo a Firenze, e io gli ho rimproverato di essere stato ad Arcore. Abbiamo bisogno di uno come lui, che piace alla gente. È intelligente, ma forse fin troppo ambizioso».

Chi le piace ora in politica?
«Ci sono diversi uomini di qualità. Uno è Enrico Letta. È molto educato e questo può far sembrare che non abbia caratteristiche da leader. Credo invece che dimostrerà di esserlo».

Squinzi è un leader?
«Squinzi è soprattutto un bravissimo industriale, con la moglie ha creato una straordinaria impresa mondiale».

Sarebbe stato meglio Bombassei?
«Bombassei doveva farsi avanti prima. Gliel’ho detto. Mi ha risposto che toccava a Montezemolo. Mah…».

Anche con Prodi lei è sempre stato critico. Pensare che vi diede l’Alfa Romeo.
«L’Alfa, che perdeva un sacco di soldi, ce la vendette Viezzoli di Finmeccanica, che peraltro era un dipendente di Prodi. Lui stava per venderla alla Ford, dopo che Ghidella e Tramontana, l’ad dell’Alfa, da tempo trattavano un’alleanza. Andai nell’ufficio di Prodi all’Iri e mi lamentai pesantemente. Non sapeva più dove girarsi».

E il Prodi politico?
«Ho qualche perplessità. L’euro si doveva fare, ma non così, senza un governo comune europeo. La sfida delle nuove generazioni è costruire gli Stati Uniti d’Europa».

Come vede il futuro dell’Italia?
«Con grandi potenzialità. Nei Paesi che rappresentano il futuro del mondo, come la Cina, l’Italia è molto ben vista. A cominciare da Milano, che con la moda e il design può trainare la ripresa. La prima cosa da fare è dare lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso e ai giovani che non l’hanno mai avuto. C’è un Paese da ricostruire, i fiumi esondano, le scuole cadono a pezzi: mettiamo i cassintegrati e i disoccupati al lavoro».

Quando toccò a lei, lasciare la gente a casa, come si sentiva?
«Ma noi avevamo un programma. La Fiat mandò via 25 mila persone, e negli anni successivi ne assunse 60 mila. Noi volevamo fare un’azienda più grande e più forte, non più piccola».

Lei però non ha avuto lo stesso successo come imprenditore. Rimpianti?
«Qualcuno sì. Il mio capolavoro è stata la marcia dei 40 mila. Allora non feci tanti ragionamenti: gettai il cuore oltre l’ostacolo. Un tempo negli affari contava più il cuore della mente, più l’istinto dei calcoli; ora non più. Il mio mondo era quello. Oggi è diverso».

Come vede il futuro del «Corriere»?
«Dovrebbe appartenere a una Fondazione».

La considera una situazione praticabile?
«Sì. Certo bisognerebbe esercitare una moral suasion sugli azionisti».

È vero che a Fiumicino ha dato uno schiaffo a un cameriere?
«Ma no! Ero con una mia amica che ora sta venendo qui, glielo confermerà».

Quanto hanno contato le donne nella sua vita?
«Guardi fuori. Vede gli alberi, le colline, le torri? Ecco, la cosa più bella di tutte queste, la meraviglia del Creato, è la donna. Io ho avuto una moglie perfetta, di cui ho tanta nostalgia. Ma le donne mi sono sempre piaciute. Perché sono migliori di noi. Sanno ascoltare. Non ti tradiscono. E se proprio ti tradiscono, porterai comunque sempre dentro di te la dolcezza che ti hanno dato».

 

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