Il lavoro si crea solo se si punta sull’impresa

Di Alberto Orioli – Da Il Sole 24 Ore

Nessuno scherzo, solo una cabala tragica. Quel tasso di disoccupazione al 13% è un indicatore drammatico, ma – se possibile – ce n’è un altro ancora peggiore.

È il tasso di attività: inchiodato al 55,2% sul totale della popolazione attiva (in Europa la media è del 64% con la Germania al 72%). Ciò disegna un Paese senza opportunità. L’Italia dello spreco dei talenti. E significa qualcosa se abbiamo perso mille posti al giorno e nella sola Londra vanno almeno mille giovani al mese.

C’era anche Matteo Renzi ieri a Downing Street, ed è intuibile che dall’incontro con David Cameron possa aver ricevuto uno spunto strategico semplice e rivoluzionario: lavoro significa impresa. La Gran Bretagna è uscita dal coma: ha tagliato la pubblica amministrazione, ha abbassato le tasse sulle aziende (oltre che sul lavoro); ora, dopo un paio d’anni di cura, vede i risultati positivi. Tra cui anche una formidabile capacità di attrarre imprese. E il fatto che il nostro premier sia a Londra il giorno dopo l’ultima assemblea “italiana” della Fiat (che si sposterà ora tra Amsterdam e Londra) è un capriccio del calendario, ma anche no.

Fa bene il ministro Giuliano Poletti ad avere scelto lo slogan semplice di «non lasciare nessuno a casa senza fare niente e di dare a ciascuno un’opportunità per rendersi utile». E fa bene a non parlare di “posto” di lavoro. Quel 13% registrato ieri fa giustizia degli scontri del Novecento tra seguaci della turbo-flessibilità e sacerdoti della lotta aprioristica alla precarizzazione. Quella stagione – lunghissima – di contrapposizione ideologica ha indotto a “parlar d’altro” e non ha mai colto il punto: il lavoro inteso come opportunità legata a un’idea (vincente) di impresa, sia essa industriale o di servizio. Ci rendiamo conto, tragicamente, di aver dibattuto per decenni sulle regole del lavoro senza aver mai fatto tesoro di come si crea, il lavoro. Oggi quell’errore prospettico presenta il conto.
Un Paese dove è ripartita la migrazione interna, oltre a quella internazionale (dei cervelli), dove le occasioni di lavoro si creano in settori destinati agli immigrati.

Sarà il Jobs act la risposta? Sicuramente sarà una risposta, ancorché parziale. La riforma migliore e più utile fatta finora dal Governo Renzi è quella sui contratti a termine. Il disegno di legge che introduce i contratti a tutele crescenti può essere un ulteriore passo avanti; così come lo è la norma di semplificazione per l’apprendistato.
È una sfida importante anche quella di semplificare il codice del lavoro in una cinquantina di articoli, così come annunciato sempre ieri dal Capo del Governo: il nemico principale di questa svolta saranno probabilmente quanti oggi vivono delle complicazioni create finora da un corpus di oltre 2.100 norme (citato ieri dal premier Renzi) che occupa migliaia e migliaia di pagine (solo per fare un esempio, esistono 37 leggi che oggi disciplinano l’uso della Cassa integrazione). La semplificazione aumenta l’accessibilità della norma, la sua diffusione crea cittadini più consapvoli e, in buona sostanza, migliora la qualità di una democrazia. Nel caso del lavoro è particolarmente vero, visto che dal lavoro passa l’idea di appartenenza a una società, la percezione di un ruolo, di una utilità pubblica.

Ma diventa dirimente associare all’idea del lavoro quella dell’impresa. Secondo una concatenazione virtuosa inevitabile: impresa-occupazione-reddito-consumi. E impresa, nella seconda potenza industriale d’Europa, significa soprattutto manifattura sapendo, tra l’altro, che ogni posto nella manifattura ne “gemma” tre nei servizi.
Quel 13% sanzionato ieri dall’Istat mette il Governo di fronte al dilemma strategico che, finora, ha mostrato di non avere colto appieno. Saranno necessarie politiche di contesto: per creare innovazione e competenze da aggregare in luoghi in cui sia facile il contagio positivo delle idee; per selezionare idee nuove e vincenti legate ai nuovi modi di produrre (come ad esempio tramite le stampanti 3D). Ma servirà anche altro. Soprattutto una diversa politica fiscale. I 10 miliardi annunciati per dare gli ormai famosi 80 euro ai redditi più bassi (che sono diventati 6 e non è ancora chiaro se resteranno una misura una tantum) sono il sigillo tangibile di una scelta che ha guardato agli appuntamenti di breve termine (soprattutto elettorali) rinunciando, per adesso, a pianificare azioni durevoli – come sarebbe un immediato alleggerimento fiscale sulle imprese – per far crescere le nostre aziende e, per questa via, aumentare il lavoro. Nella triste cabala della recessione, però, non è quell’80 la risposta giusta a quel tragico 13. Per far scendere il tasso di disoccupazione sotto il 10% servono 780mila posti. Un modo per recuperarali al più presto è certamente quello di tagliare il cuneo fiscale che oggi spiazza le aziende. È annunciato, quel taglio; non c’è tempo da perdere. L’urgenza è evidente.

 

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