Le scelte non più rimandabili

di Stefano LepriLa Stampa del 18.05.2012

Ormai ce lo sanno dire tutti. Tutto il mondo sa che cosa l’area euro dovrebbe fare per uscire da questa nuova stretta. Consigli analoghi vengono dal Presidente degli Stati Uniti, dal Primo ministro britannico, dal Fmi; manca solo che ci si metta anche la Cina. Nelle ultime ore qualcosa sembra muoversi, in Germania. Ma non c’è più tempo per caute correzioni di rotta. Il momento per decidere è ora.

Non è un tracollo dell’euro quello che rischiamo, questo no. L’unione monetaria sopravvivrà; ma dalle scelte che si faranno nei prossimi giorni dipende se al risultato ci arriveremo con affanno e a costi elevati, spinti dall’urgenza di elevare barriere contro un crack della Grecia, o se lo otterremo prima, senza passare per questo trauma, evitando la scia di risentimenti che ci imprimerebbe nella memoria. Speriamo che non sia già troppo tardi per arrestare la frana. Forse è esagerato il timore che ad affossare la Grecia siano già prima delle nuove elezioni i greci stessi.

Greci che hanno svuotato le loro banche, inzeppando i materassi di banconote in euro destinate a restare valide fuori dei loro confini in un domani di ritorno alla dracma.

È paradossale che proprio l’euroscettico David Cameron, conservatore inglese a cui l’euro non è mai piaciuto, ci fornisca una agenda precisa. Ce l’aveva già detto nelle settimane scorse, ma mai con tanta incisività come ieri: un efficace fondo di salvataggio, banche ben capitalizzate e regolate da un’unica autorità di vigilanza, una politica di bilancio comune, una banca centrale pronta a intervenire.

Dove sono gli ostacoli? Ovunque. Si può capire che un Paese rilutti a cedere sovranità nazionale; assai meno che i suoi politici non vogliano rinunciare a un rapporto di complicità con i banchieri insediati entro i propri confini. Lo abbiamo visto e lo continuiamo a vedere nel modo reticente e maldestro in cui a Madrid prima il governo socialista, e ora quello popolare, hanno gestito la crisi delle banche locali spagnole.

A ridurci a questo punto è stata la reciproca sfiducia tra le classi politiche dei 17 Paesi membri. Nel suo insieme l’area euro è in equilibrio nei conti con l’estero, non avrebbe avuto bisogno del risanamento tanto accelerato che l’ha risospinta di nuovo nella recessione. A Berlino lo stanno cominciando a capire solo ora, perché l’umore della stessa Germania sta cambiando, tra agitazioni sindacali e voti in alcune regioni.

Un passo in avanti politico è ora indispensabile, come fa bene a ripetere il nostro Presidente della Repubblica. Lo è perché la sovranità non è più dove le classi politiche nazionali insistono a ripetere che si trova ed è da loro difesa e salvaguardata. Gli squilibri economici la hanno già trasferita. La Grecia è ridotta in condizioni di dipendenza tali che i suoi elettori ignorano di non poter scegliere liberamente; mentre i cittadini dei Paesi forti fanno per ragioni interne scelte di cui non sanno le ripercussioni sui Paesi vicini.

La distorsione della democrazia è maggiore proprio nel Paese più forte e in quello più debole. In Germania, il successo economico cela che sarebbero possibili soluzioni più vantaggiose anche per la gran massa dei tedeschi stessi; rende sordi ai consigli di Washington e di Londra. In Grecia, a una classe politica corrotta rischia di sostituirsene un’altra che sfrutta la disperazione della gente per addossare al resto d’Europa, o a un complotto neoliberista mondiale, la colpa di sacrifici che il Paese dovrebbe fare comunque per sopravvivere. Esiste una politica europea capace di far intendere agli uni le ragioni degli altri?

Fonte: La Stampa

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