Salario minimo, non è la soluzione per tutelare i lavoratori più fragili

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Il tentativo di alcune forze politiche, ansiose più di consolidare nuove leadership con argomenti di facile presa che di affrontare e risolvere i nodi strutturali che impediscono la crescita del Paese (ogni riferimento al Movimento 5 Stelle e al partito democratico è puramente voluto), rischia di portare di nuovo al centro del dibattito politico il tema del salario minimo. 

Ora meno che mai il nostro mercato del lavoro ha bisogno di interventi dirigisti. L’introduzione di soglie minime o massime non ha mai portato a maggiori livelli di tutela dei lavoratori. Per decenni ad esempio, quella del famoso articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che prevedeva l’obbligo di reintegra per i lavoratori di aziendecon più di 15 dipendenti, ha condizionato il dibattito e le politiche del lavoro, aumentandone solo il tasso di ideologia. Nel frattempo, molte imprese sono rimaste piccole pur di non superare quella dimensione, nel migliore dei casi gemmandone altre, con escamotage inutili per un Paese che sancisce costituzionalmente la libertà d’impresa. 

Dopo più di 5 anni dal superamento dell’articolo 18 per i nuovi assunti, non abbiamo un mercato del lavoro più selvaggio con lavoratori meno tutelati. Né abbiamo assistito ad uno tsunami di licenziamenti ingiustificati quando il Governo ha cancellato per molti settori il divieto di licenziamento previsto durante la pandemia covid. 

Il punto è che le logiche che regolano il mercato del lavoro non sono deterministiche, con un solo possibile nesso di causa ed effetto. E talvolta sono contro-intuitive. Bloccare i licenziamenti per legge, per esempio, può certamente apparire un’ottima cosa, ma non impedisce che le aziende muoiano e che i posti di lavoro si perdano. Le stesse generose politiche di incentivi alle assunzioni, quando non specificatamente mirate,non hanno determinato l’aumento dell’occupazione atteso. Lo stesso è accaduto con gli incentivi previsti per le assunzioni dei beneficiari di reddito di cittadinanza. 

Le scelte assunzionali delle imprese dipendono da molti altri fattori, sempre più relativi alle competenze possedute dai lavoratori e all’aumento della produttività. 

Ad un’analisi più attenta dunque non può sfuggire come la previsione di un salario minimo non può essere la soluzione del problema dei lavoratori sottopagati.

Innanzitutto, il salario minimo rischia di disincentivare la contrattazione collettiva e di livellare complessivamente le retribuzioni. Se la legge statale fissa un salario minimo più basso dei livelli contrattuali perché mai l’imprenditore dovrebbe applicarli? Poiché le attuali retribuzioni dei contratti collettivi sono già superiori all’ammontare di salario minimo ipotizzato nei dibattiti politici, non si corre il rischio che la fuga dai contratti collettivi determini anche l’abbassamento degli stipendi per molti lavoratori di molti settori? Nel medio periodo, dinamiche perverse di questo tipo sempre a scapito dei lavoratori, si determinerebbero anche nell’ipotesi di salario minimo superiore agli attuali livelli contrattuali, con l’aggravante di incentivare il ricorso al lavoro nero soprattutto in alcune aree del Paese. 

Al contrario, la contrattazione collettiva rappresenta una modalità di costruzione del sistema di tutela dei lavoratori anche dal punto di vista retributivo, soprattutto se capace di incentivare l’incremento di produttività a cui collegare elementi retributivi aggiuntivi.

Il punto è che il problema del lavoro sottopagato non riguarda affatto i quattro quinti di lavoratori a cui si applicano i livelli retributivi dei contratti collettivi. E in questo senso – è bene precisarlo per chi utilizza strumentalmente l’argomento – non è una richiesta e men che meno un obbligo europeo: ciò vale infatti per quei Paesi in cui non esiste una tradizione di applicazione di contratti collettivi comparabile con quella italiana. 

Lo scandalo dei lavori sottopagati riguarda per l’appunto quella manodopera a cui si applicano contratti non stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, disposti ad accettare forme di dumping salariale.

A ben vedere, il salario minimo non è quindi il rimedio mentre potrebbe essere causa di mali diversi. La vera soluzione è invece quella di favorire l’estensione della contrattazione collettiva.

Al netto del fatto che la rilevanza complessiva del tema ‘lavoro’ dovrebbe provocare un dibattito più pragmatico e meno ideologico su quei nodi strutturali che impediscono la crescita occupazionale. Dal mismatch domanda-offerta, alla bassa produttività, dall’efficacia degli ammortizzatori sociali (che hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza durante il periodo pandemico) al loro collegamento con il tema delle politiche attive. Vaste programme, certo, ma sicuramente più necessario del tentativo di piantare bandierine ideologiche.

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