Di Giuseppe Di Taranto – Da Il Foglio
Al direttore – “Aggiustare l’euro” dovrebbe entrare a tutti gli effetti nell’agenda di politica economica di questo governo di grande coalizione. Rinviare, almeno su questo fronte, sarebbe letale. Non a caso, in un Manifesto firmato, a parte da chi scrive, da illustri economisti e giuristi dell’economia, quali Paolo Savona, Giuseppe Guarino, Rainer Masera, Giorgio La Malfa e numerosi altri, si chiede una revisione dei trattati di Maastricht e di Lisbona. Un ripensamento dell’architettura istituzionale dell’Unione monetaria europea, infatti, è ormai improrogabile, perché essa ha affidato alla sola politica monetaria, rallentata peraltro dai vincoli statutari della Banca centrale europea, il raggiungimento del fondamentale obiettivo da conseguire: la lotta all’inflazione, lasciando l’attuazione delle politiche fiscali, per la crescita e l’occupazione, a carico dei singoli stati ai quali, pero, è imposto il rispetto del rapporto deficit/pil al 3 per cento e debito/pil al 60 per cento, vincoli insormontabili in condizioni di congiuntura sfavorevole. Il risultato è stato che il pil della zona euro è diminuito rispetto alle altre aree del mondo e che si è interrotto il processo di integrazione politica da tutti auspicato.
I fondamenti del trattato di Maastricht, che prevedeva la successiva adesione alla moneta unica, erano il Rapporto Delors (l989) e uno studio successivo, “One market, One money” (l990), elaborato dalla direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, che stimava i futuri vantaggi che l’euro avrebbe comportato. Si calcolava che la nuova architettura istituzionale e l’allargamento del mercato avrebbero condotto, nel medio periodo, a un incremento del reddito dell’Eurozona del 4,7 per cento, cui andava aggiunto uno 0,7 per cento per la stessa introduzione della moneta unica; una riduzione del livello dei prezzi del 6 per cento e una crescita dell’occupazione non inferiore a 2 milioni di unità. Grazie alla maggiore mobilita della manodopera, gli investimenti sarebbero stati indirizzati verso le regioni più povere, dove e minore il costo del lavoro, avviando processi di convergenza — sia del pil sia dei tassi di disoccupazione — con le aree più ricche dell’Unione monetaria europea. Ebbene, a partire dall’anno precedente all’introduzione dell’euro come banconota, il 200l, a tutt’oggi l’Eurozona registra un incremento medio del pil costantemente inferiore rispetto a quello degli stati che non hanno adottato la moneta unica; il tasso medio di disoccupazione e al 25 per cento e quella giovanile ha toccato i massimi storici in alcune nazioni quali la Grecia, la Spagna e l’Italia.
Inoltre, l’intera Unione europea registra ll4 milioni di cittadini a rischio di povertà e di esclusione sociale su una popolazione di circa 500 milioni, con buona pace dell’Agenda di Lisbona — varata nel 2000, rivisitata nel 2005 e poi trasformata in “Europa 2020″ a conferma dei suoi reiterati fallimenti — che si proponeva di trasformare l’Unione stessa nella prima potenza al mondo in termini di economia della conoscenza e, tra le priorità strategiche, di aumentare l’occupazione rifondando il mercato del lavoro.
Dare all’euro una certa flessibilità — come auspicato dal direttore Giuliano Ferrara nell’articolo “Se non aggiustiamo l’euro l’economia resterà in panne” pubblicato sul Giornale l0 scorso 7luglio — significherebbe secondo me offrire un’alternativa alla politica rigorista che, a tutela degli interessi tedeschi, finge di non conoscere un importante postulato della politica economica: in un sistema concorrenziale e in presenza di una moneta unica, gli aggiustamenti automatici nei conti con l’estero – e non soltanto — non possono attuarsi per la mancanza di politiche del cambio. L’alternativa di un aggiustamento tramite la flessibilità dei prezzi eè impossibile, perché i prezzi, con l’euro, sono diventati rigidi e verso livelli più elevati. Anche la manovra del tasso di sconto, attraverso le singolc Banche centrali dei diversi paesi, non (è più praticabile, perché appannaggio della Bce. Il risultato? Deflazione, recessione, disoccupazione. Una maggiore flessibilità dell’euro, che permetterebbe alle nazioni più deboli di poter ricorrere, con tempi e criteri ben determinati e con un Ventaglio limitato di oscillazione, a svalutazioni controllate, assicurerebbe una maggiore
concorrenza tra i partner dell’Unione almeno al suo interno, consentendo ai paesi più deboli di recuperare competitività e risorse da investire nella crescita e, perciò, anche di migliorare i conti pubblici e di rispettare, con minori sacrifici, i parametri di Maastricht. Comunque, questa
proposta, da studiare e completare nella sua eventuale attuazione, e certamente più concreta rispetto a quella della Germania di una Europa a due velocità e con due euro: uno per l’area comprendente le nazioni a tripla A e l’altro quelle declassate. Per queste ultime, infatti, al vantaggio di maggiori esportazioni, dovuto al minore Valore della loro moneta, si contrapporrebbe il rischio del mancato pagamento delle esportazioni stesse, a causa delle condizioni di presunta insolvenza o di default in cui potrebbero trovarsi gli altri paesi sempre economicamente più deboli, nonché per il potenziale aumento degli spread e per i vincoli imposti dal piuù elevato potere di acquisto dell’area forte.
Si tratterebbe, in conclusione, di recuperare il principio della sovranità condivisa, sempre sostenuto dalla Corte di giustizia europea, rispetto a una sovranità ormai subalterna, rispetto alla Germania, di
non pochi paesi dell’Unione monetaria.